L'esempio di Milton Erickson



Quando Milton Erickson aveva diciannove anni fu colpito dalla poliomielite.

Non poteva muoversi, non poteva parlare.

Tutti pensavano che fosse in coma.

Era lì, a diciannove anni, alle soglie della vita, intrappolato in un corpo che non rispondeva in nessun modo.

Alcuni avrebbero provato rabbia per questo.

Alcuni avrebbero potuto considerare l'avvenimento come una conferma del fatto di non valere nulla.

Altri avrebbero potuto sentirsi impotenti.

Erickson avrebbe certamente potuto sentirsi disperato, specialmente quando sentì il medico dire a sua madre che non sarebbe sopravvissuto fino alla mattina seguente.

Cosa fare in una simile situazione?

Dipende dalle convinzioni.

Erickson cominciò a investire ogni grammo di energia che aveva nel cercare di scoprire se riuscisse a muovere una parte qualunque del suo corpo.

Scoprì che poteva sbattere un pò le palpebre.

Gli costò un altro incredibile sforzo e un certo tempo riuscire ad ottenere l'attenzione di qualcuno e a far capire che si trattava di un segnale.

E poi gli costò uno sforzo ancora più intenso, in termini di energia e di tempo, la definizione di uno schema di comunicazione.

Dopo molte ore di intensissimi sforzi, fu infine capace di far pervenire il messaggio che desiderava a sua madre, che consisteva nel chiederle di girare il letto verso la finestra in modo da poter vedere il sole sorgere la mattina successiva.


Credo che questo sia, in parte, ciò che ha reso Erickson l'uomo che è stato.

Non il contenuto della sua vita, ma il modo con cui ha affrontato le sfide, modo che poi conservato per tutta la vita.

Quando andai a trovarlo, doveva avere circa settantacinque o settantasei anni, e qualcuno gli domandò quanto a lungo si aspettasse di vivere.

La risposta fu: "Guardando la cosa da un punto di vista medico, dovrei farcela fino a settant'anni".


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